Un'estate senza fine (un racconto by @kork75)

in hive-184714 •  18 hours ago 

Una vecchia fotografia riaccese in lui la fiamma di estati che sembravano non dover finire mai. Era saltata fuori da una scatola di scarpe logora, durante il faticoso svuotamento della cantina dei genitori. Un gesto pratico, quasi meccanico, inscatolare, buttare, selezionare, interrotto bruscamente da quell'immagine: un frammento di carta e tempo. Non era che un semplice scatto, ma racchiudeva un mondo intero. Il molo, con la sua banchina di legno screpolata dal sole. Le barche che ondeggiavano leggere, come pensieri al vento. Un cielo d’un azzurro arrogante, quasi sfacciato, da togliere il fiato. E poi il mare: verde, cristallino, vivo. Il suo mare. Fissò a lungo quella stampa. Sul retro, sbiadito ma ancora leggibile, un appunto a penna blu: "Luglio 1993". Scrittura adolescenziale, tutta in stampatello. Come se bastasse una data a fermare il tempo. E la mente, con un movimento morbido e preciso, lo riportò indietro. Rivide la macchina fotografica usa e getta, un guscio di cartoncino sottile marchiato Kodak, con il suo rullino da trentasei pose. Un oggetto oggi dimenticato, ma allora parte di un piccolo, irrinunciabile rituale adolescenziale.

Colpilot Mictosoft - pront by @kork75
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Doveva essere uno di quei pomeriggi in cui persino le ombre si arrendevano al caldo, e il desiderio di tuffarsi superava ogni altro pensiero. Aveva quindici anni. Lo ricordava bene. Ricordava tutto. Anche cosa indossava sempre, come se quei vestiti all'epoca fossero diventati parte del suo corpo. I suoi Ray-Ban da aviatore con una noncuranza studiata, quasi fosse un vezzo per sembrare più grande. I capelli, castani, lunghi e raccolti in un codino stanco, erano trattenuti da un elastico verde fluo che pareva uscito da un’altra epoca. La maglietta bianca Fruit of the Loom gli aderiva alla pelle salata, testimone silenzioso di ore sotto il sole. I pantaloncini gialli da calcio, i suoi preferiti, erano logori dalla stagione appena conclusa, quando giocava centrocampista metodista nella squadra del paese. Consumati come le pagine di un diario calcistico segreto, quei pantaloncini raccontavano il sogno di giocare in attacco come il brasiliano Romario. Magro, abbronzato, con spalle ancora incerte e ginocchia sbucciate, era un corpo in transizione. Sospeso tra l’infanzia e un’adolescenza che non sapeva ancora come prendere forma. A quasi cinquant’anni, guardandosi allo specchio, non poteva che sorridere. I fianchi più larghi, i movimenti meno agili. Come se il tempo si potesse misurare in centimetri. Al polso, allora, portava lo Scuba Swatch viola e blu, regalo dell’esame di terza media. Ai piedi portava zoccoli di legno che battevano lenti sull’asfalto rovente, nella sua marcia quotidiana verso il mare. Sempre con sé un telo a righe bianche e blu: arrotolato sulla spalla o steso su uno scoglio piatto, poco distante dal molo. Lì rimaneva fino al tramonto, finché il telo, intriso di salsedine e sabbia fine, diventava parte integrante del suo rituale estivo. Le giornate scorrevano lente e piene. Tra chiacchiere in piazza e lunghi bagni rigeneranti. Sul muretto, lui e gli amici si raccontavano storie, osservavano il viavai della gente. Le ragazze, nei loro vestiti leggeri e colorati, stringevano al petto diari segreti e riviste come Cioè. Si scambiavano sorrisi complici, sguardi rapidi, promesse che non dovevano per forza avverarsi. A volte si passavano il Walkman, premendolo all'orecchio come fosse un sigillo del loro mondo sonoro. Dentro, cassette di Venditti, Jovanotti, gli 883, Madonna. Il gelato inevitabilmente colava tra le dita. Dal bar, il loro punto d’incontro, il jukebox sparava note in ogni angolo. Sempre la stessa: l’inconfondibile What is Love. Cinquecento lire bastavano per farla ricominciare. Sempre troppo alta. Sempre troppo fastidiosa per i vecchi giocatori di briscola. Ma anche quel fastidio faceva parte dell’estate. I rimproveri. Le minacce di staccare la spina al jukebox. Il clangore metallico del flipper che scandiva il tempo tra una risata e una sigaretta nascosta. E poi le lunghe partite a biliardino. Giocate con la serietà di una finale mondiale. Le mani esperte sapevano quando colpire di punta, quando passare rasoterra, quando ribaltare tutto con un solo tiro. Le barrette che scattavano, le urla di vittoria, le vendette da consumare. Era una battaglia, una guerra, una risata. Tutto insieme. Aveva quattro materie da recuperare a settembre. Ma non ci pensava. L’estate era troppo piena. Di sole. Di mare. Di risate. E di quella dolce, confusa voglia di non fare nulla. Solo restare. Farsi attraversare dal tempo, come da un vento tiepido. Il molo era il loro rifugio. Un pallone da calciare sulla sabbia. Una porta da pallanuoto improvvisata tra due boe. Le barche in rada. Il rumore delle onde si mescolava alle grida dei gabbiani, alle chiacchiere dei pescatori, alle risate dei bagnanti: una sinfonia estiva in continua evoluzione. Le giornate scivolavano leggere: un tuffo improvviso, una birra rubata, la voglia di diventare adulti. E il timido desiderio di tentare un approccio goffo con quelle ragazze che, senza far nulla, rendevano ogni giornata più elettrizzante. La sera, prima di rincasare per cena, recuperava il telo e si concedeva una doccia veloce sotto la manichetta del rimessaggio barche. Il getto era freddo, pungente, ma rassicurante. Un rito silenzioso. Segnava il confine tra giorno e notte, tra adolescenza e il gioco sottile dei primi amori serali, fatti di sguardi rubati e sogni che prendevano forma sotto un cielo stellato.

Ora, seduto accanto a quella scatola di cartone e ricordi, stringeva la fotografia tra le dita. Il tempo non aveva cancellato nulla. Aveva solo cambiato posto alle cose e ai ricordi. Poi, un pomeriggio, la vide. Era sulla prua di un gozzo, con lo zainetto Invicta abbandonato accanto a lei e il bikini azzurro che catturava la luce del sole. Gli occhi grigi, freddi e taglienti, sembravano scolpiti nel volto, mentre quel caschetto nero di capelli, ordinato come un pensiero deciso, ne accentuava la presenza silenziosa. Non parlava. Guardava il mare oltre la diga e l’insenatura, come se in quell’orizzonte cercasse un altrove, una risposta, una via di fuga. Lui la osservava in silenzio. Sentì lo spegnersi del motore fuoribordo e il lento calare dei remi mossi dall’uomo che era con lei. Lui era lì, se lo ricorda bene quel giorno, seduto sul bordo della banchina, con le gambe penzoloni, la gola gli era più secca della sete, le mani sudate, il cuore che faceva male. Ma non era paura, né felicità: era qualcosa di diverso. Qualcosa che ancora non sapeva nominare. L’uomo sulla barca, forse suo padre, calò i parabordi e gli lanciò una cima. Lui la afferrò al volo e li aiutò a ormeggiare. Poi accadde: lei gli porse lo zaino, poi la mano per scendere. Il gesto era lieve, ma dentro di lui esplose qualcosa. Un silenzio riempì l’aria, un battito più forte del suo cuore. In quel tocco leggero sentì tutto: l’agilità, la sicurezza, quelle gambe lunghe da adolescente che stava diventando donna. Il seno già maturo, il corpo sospeso in un equilibrio misterioso, fragile e irresistibile. Bella. Di una bellezza che confonde e ferisce. Un sorriso. Un “ciao, grazie” appena sussurrato. Uno sguardo che sembrava non finire mai. Era lì, presente, eppure già lontana, come un sogno a occhi aperti. E un tuffo al cuore, netto, definitivo. Da quel momento, iniziò a cercarla ovunque: al bar, nei negozi di alimentari, alla stazione dei treni, in spiaggia, nei pomeriggi roventi e tra gli sbalzi d’umore che l’estate portava con sé. Ogni tanto la vedeva passare, sola o in compagnia di volti sconosciuti. Ma non trovava mai il coraggio di avvicinarsi. Solo sguardi sfuggenti, brevi incroci di respiri, spostamenti d’aria impercettibili.

La sera, dopo cena, il paese cambiava volto. Si accendeva di luci giallastre e promesse leggere. Le vie del centro si riempivano di ragazzi con le mani in tasca e gli occhi pieni di attese. Si riconoscevano dal passo, dal modo in cui ridevano, dai vestiti. I ragazzi indossavano magliette larghe con scritte sbiadite, jeans slavati o bermuda stropicciati, le Timberland estive da vela, consumate dal sale e dalla sabbia. I capelli, scolpiti con la gelatina Intesa o con il gel effetto bagnato, brillavano sotto i lampioni, tra punte dritte e ciuffi ostinati. Lui, invece, ogni sera si metteva davanti allo specchio del bagno con la radio accesa e i capelli ancora umidi. Con pazienza li tirava all’indietro con abbondante gel effetto bagnato, e li legava in una coda alta, pronto per uscire, come se anche lui stesse per andare in onda a fare il suo karaoke personale. Era il suo rituale, il suo modo per sentirsi pronto, all’altezza, visibile. Ogni volta ci metteva dieci minuti buoni: un colpo di pettine, una passata di mani, e poi l’elastico nero. Le ragazze sembravano uscite da un videoclip: salopette leggere, crop top, elastici colorati ai polsi, ciocche tirate indietro con forcine invisibili. Camminavano in piccoli gruppi, abbracciate tra loro, con le infradito che schioccavano sull’asfalto e le voci che sembravano canzoni. La sala giochi era il cuore della notte. Un rifugio fresco, elettrico, rumoroso. Dentro c’erano i cabinati di Street Fighter II, Puzzle Bobble, Double Dragon. Proprio Double Dragon era il suo regno: lì era imbattibile. Conosceva ogni mossa, ogni trucco, ogni sequenza di colpi. Le mani si muovevano istintive sui pulsanti, come se avessero una memoria propria. Le monete da duecento lire scivolavano tra le dita come sabbia. Ogni partita era una questione di onore. Tra una sfida e l’altra si beveva Coca-Cola dalle bottigliette di vetro, o una granita appiccicosa. Si condividevano gomme da masticare e risate. E lui spiava l’ingresso sperando che lei passasse di lì, anche solo per un attimo. Più tardi, lungo i muretti, i più grandi suonavano la chitarra. Sempre gli stessi accordi, ma ogni volta diversi. Bastavano le prime note di Wish You Were Here, e il silenzio si allungava come un lenzuolo sopra tutti. Qualcuno fumava, altri si perdevano nel cielo, contavano le stelle, dicevano bugie dolci solo per sentirsi ascoltati. Le zanzare pungevano senza tregua, ma nessuno sembrava farci caso. Ci si grattava distrattamente tra una chiacchiera e un sogno. L’odore di Autan e quello del gelsomino si mescolavano all’umidità della sera e al sudore che si asciugava lentamente sulla pelle. Il tempo rallentava.

La sua mente vago tra i ricordi e arrivo al 15 agosto del 1993. Ferragosto. Il caldo implacabile colava dall’asfalto. La piazza vibrava, liquida, come l’aria sopra il cofano di una macchina ferma al sole. Ogni cosa sembrava sul punto di esplodere. L’estate era al suo apice, e con essa la tensione che serpeggiava tra le compagnie, nei vicoli, tra i motorini parcheggiati male, tra i capannelli di ragazzi che si studiavano da lontano. Bastava poco. Uno sguardo di troppo. Una parola detta male. Una ragazza al centro. Sempre. Quella sera non fece eccezione. Una bottiglia volò. Si ruppe contro il cofano di una Fiat Uno rossa. Un motorino fu rovesciato. E poi le fiamme. Veloci. Feroci. Il fumo salì denso, nero, graffiando il cielo. Tutto esplose. Urla. Corse. Pugni. Mani che cercavano qualcosa da afferrare. Sembrava un campo di battaglia improvvisato, sgraziato. Lui era lì. Immobile. Non riusciva a muoversi. Il cuore gli batteva in gola, ma il corpo non rispondeva. Guardava. Come se fosse tutto troppo veloce, troppo sfocato per intervenire. E poi la vide. Era dall’altra parte della strada, tra due auto, semi nascosta dal fumo. Lei. Il caschetto nero, lucido. Una giacca di jeans aperta, sotto una maglietta bianca a fiori blu. Jeans a vita alta, scarpe da ginnastica bianche, e una piccola borsa di cuoio a tracolla. Gli occhi fissi nei suoi. Nessun sorriso. Nessuna paura. Solo quell’attimo, teso e silenzioso. Poi due parole, quasi sussurrate. “Portami via.” Le sirene iniziarono a urlare in lontananza. Lampeggianti blu e rossi cominciarono a rimbalzare sulle pareti dei palazzi. Il suono dei carabinieri si avvicinava. Tutti iniziarono a correre, come accade quando l’adrenalina diventa panico. Un’ondata disordinata di voci, passi, motori che si accendono. Fu allora che si mosse. Scese dal marciapiede, tagliò il parcheggio, si fece largo tra fumo e vetri rotti. Arrivò da lei. Le prese la mano senza dire nulla. Lei non oppose resistenza. Anche l’amica la seguì, senza chiedere. Corsero. Attraverso i vicoli stretti del centro, su per la scalinata sconnessa che portava in cima al promontorio. Il cuore gli batteva forte, le mani sudate stringevano la sua. Correva senza pensare, senza voltarsi.

Quando arrivarono in cima, si fermarono. Il respiro spezzato, il silenzio tutto intorno. Da lì si vedeva il paese: le luci gialle delle case, i tetti rossi, il porto quieto. Il rumore delle sirene sembrava un’eco lontana.Nessuno parlava. L’amica, ancora ansimante, si sedette su una pietra e si passò la mano tra i capelli umidi di sudore. Rimase con loro qualche minuto, poi si alzò. “Io torno giù. Voi… restate”, disse con un mezzo sorriso. E senza aggiungere altro, scomparve tra gli ulivi. Giulia, invece, si sedette su una panchina del belvedere. Guardava il mare, con le ginocchia strette al petto e la giacca di jeans che le scivolava dalle spalle. “Vengo qui ogni volta che voglio sparire”, disse piano. “Anche se… in realtà non vengo quasi mai. Quest’estate siamo in una casa vacanze dei miei. Ma da bambina venivo a trovare mio nonno. Era nato qui. È morto quando avevo sei anni. Ricordo poco di lui. Ma questo posto… mi sembra familiare. Come se ci fosse qualcosa che mi appartiene e che ho dimenticato.”Lui non rispose subito. Si sedette accanto a lei, cercando le parole giuste. “E adesso?” chiese infine. Lei si voltò. Un sorriso appena accennato le sfiorò le labbra “Adesso non voglio più sparire. Voglio solo respirare.” Lo guardò a lungo. Gli occhi grigi, profondi, sembravano illuminati dalla notte. “Come ti chiami?”. “Andrea”. “Io, Giulia. Ho diciassette anni”. Poi, quasi sussurrando, aggiunse: “Non so cosa sto cercando”. Si strinsero la mano. Un gesto semplice, ma che sembrava racchiudere tutto. Poi lei appoggiò la testa sulla sua spalla. Giulia si strinse di nuovo le ginocchia al petto, fissando il mare. “A casa non mi capisce nessuno. Neanche io, certe volte. Qui… almeno nessuno si aspetta che io sia qualcosa di preciso”. Fece una pausa. Il vento le scompigliava il caschetto. “Sai cosa mi pesa? Che mi guardano e vedono già tutto deciso. Cosa farò, chi sarò. Ma io… io non lo so. E se provo a dirlo, mi dicono che è solo l’età. Che passa. Ma se non passa?”. Lui rimase in silenzio. Non capiva fino in fondo, ma era rapito da lei, da quella ragazza più grande che gli parlava come se il tempo si fosse fermato. “Per questo vengo qui. Non per sparire. Ma per respirare. Per ricordarmi com’è quando non devo spiegarmi a nessuno”. Restarono così, vicini, come sospesi. Parlarono per ore. Di tutto. Di niente. Di cose importanti e stupidaggini. Di amici, scuola, sogni e paure. Di passioni, canzoni, film lasciati a metà. Di quello che manca quando si è giovani e si sente tutto troppo. Le parole si fecero più lente man mano che l’alba si avvicinava. Il cielo cominciava a schiarirsi, sfumando in rosa e arancio. I primi rumori del paese ricominciavano: un gallo, una tapparella, il clangore di una saracinesca. La notte era finita. ”Devo tornare”, disse lei, alzandosi. “Mia madre si starà preoccupando”. Andrea si frugò nelle tasche. Tirò fuori la Kodak. Scattò. Il flash li illuminò per un istante: abbagliante, irreale. “La stampo e te la do”. Giulia scosse la testa. “No. Tienila tu. Così te lo ricordi meglio”. Poi gli sfiorò il viso con un bacio leggero, sulla guancia. “Ciao, Andrea”. ”Ci rivedremo?”. Lei sorrise. Uno di quei sorrisi che non promettono, ma restano. “Forse. O forse ci siamo già visti nel posto giusto”. E sparì tra gli ulivi e i sentieri che portavano giù, verso il paese addormentato. Il giorno dopo, la piazza era tornata quella di sempre. Le saracinesche alzate, i ragazzi appoggiati ai motorini, il jukebox che gracchiava sempre la stessa canzone.Tutti parlavano della notte prima: era la notizia del giorno. Nessuno parlava di Giulia. Lui tornò sul promontorio, da solo. Si sedette dove erano stati insieme. Il cielo era limpido, tagliato in due da una scia d’aereo. Guardò a lungo il paese dall’alto il mare il cielo . Giulia era lì, sorridente, il vento tra i capelli, lo sguardo perso altrove. Sospirò. Una volta sviluppata, ricordava di averla infilata nel portafoglio, tra una banconota stropicciata e l’abbonamento del treno. Rimase lì fino alla maturità, in attesa che lei tornasse. Ma non successe. Fu l’ultima volta che la vide.

Rimise via la foto del mare. Sotto, c’era scritto: “Luglio 1993.” Chiuse la scatola con i ricordi del passato e sorrise. Perché sapeva che certi ricordi non svaniscono. Restano lì. Silenziosi. Vividi. Come un’estate che non finisce mai davvero.

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